L'indagine interiore dannunziana: il capitolo XXIX de L'Innocente

Andrea Tili

1/31/202510 min leggere

Gabriele d'Annunzio e L'Innocente

In Italia tutti conosciamo Gabriele d'Annunzio.

Inutile ribadire il peso che ha avuto la sua produzione letteraria sulla cultura italiana ed europea. Fu un personaggio di grande spicco e, a differenza di molti altri suoi coetanei, ebbe una fortissima influenza non solo letteraria ma anche politica e sociale.

Per queste sue interferenze con la storia, d'Annunzio è di certo un personaggio molto controverso, e non di rado incompreso.

Con il suo romanzo più famoso, Il Piacere (1889), ha ottenuto un immenso riconoscimento in tutta Europa. Scrittori del calibro di Marcel Proust o James Joyce si ritenevano suoi grandissimi ammiratori.

Per molti la conoscenza dell'opera letteraria dannunziana si ferma al Piacere, o alla lettura delle sue opere liriche. L'articolo di oggi vuole esortare i lettori ad approfondire meglio la figura di d'Annunzio attraverso un suo romanzo meno conosciuto: L'Innocente, pubblicato nel 1892 presso l'editore Bideri di Napoli.

Pubblicato tre anni dopo l'uscita del Piacere, in seguito all'esperienza della leva militare, d'Annunzio ci presenta questo romanzo come frutto di un periodo di estremo dolore: canonicamente, è l'inizio del "periodo della bontà", ovvero quel periodo in cui d'Annunzio attua un ripiegamento interiore e si focalizza sull'indagine psicologica dei suoi personaggi, interesse frutto anche della lettura dei romanzieri russi come Dostoevskij e Tolstoj.

Romanzo simile al Piacere per la scelta del protagonista di un nobile decadente, la vicenda ci racconta una storia molto più cupa e inquietante: la tragica confessione dell'infanticidio di Raimondo, figlio illegittimo nato dall'unione di Giuliana, moglie di Tullio, e un altro uomo, Filippo Arborio.

Ed è così che d'Annunzio ci trasporta in questo tormentato viaggio all'interno della mente di un assassino che confessa le proprie azioni (o almeno, sembra volerle confessare): il modello della confessione è certamente frutto della lettura da parte di d'Annunzio di un romanzo di Maupassant, La Confession (1883).

L'invito dunque è quello di provare a leggere una meno conosciuta versione di Gabriele d'Annunzio, di esplorarne un'altra prospettiva.

Buona lettura.

Introduzione all'articolo

In questo articolo verrà analizzato il XXIX capitolo del romanzo, con lo scopo di evincere dal testo alcuni elementi relativi all’indagine psicologica compiuta da d’Annunzio rappresentando il rapporto dell’Io nei confronti del mondo.

Saranno presi in considerazione anche il monologo interiore del protagonista Tullio Hermil, le scelte lessicali e stilistiche, il rapporto tra indagine psicologica e indagine sociale del romanzo. Molta attenzione è stata fatta sulla struttura ripetitiva che caratterizza questo romanzo, cercando di trovare delle possibili corrispondenze di significato che possano meglio spiegare il complesso disegno di quest’opera. Scopo dell'articolo è chiarire come l’iterazione sia una figura retorica utilizzata ampiamente da d’Annunzio per mostrare meglio al lettore il ragionamento distorto e ossessivo del protagonista.

È risultato proficuo a questo scopo annoverare le occorrenze di alcuni vocaboli: alcuni sembrano modificarsi di senso lungo lo svolgersi del romanzo; altri sembrano caricarsi di valore allegorico e metaforico, esprimendo la dissonanza tra lo stato interiore-psicologico del soggetto e l’ambiente circostante.

Grazie a ciò, siamo in grado di comprendere come la macchinazione omicida di Tullio sia anticipata nel romanzo attraverso tante piccole implicite immagini che scaturiscono proprio dal rapporto del personaggio con il mondo. Tullio, incapace accettare la realtà, cerca invano di ricostruire la vicenda dell’infanticidio contaminandola con le sue ossessioni e il suo narcisismo.

Il capitolo XXIX

Il capitolo è ambientato nel ricordo di una gita a Villalilla, “nostalgica dimora dell’infanzia e della perduta felicità coniugale”[1]. Sono con Tullio anche le figlie Maria e Natalia, e Miss Edith, la governante inglese.

All’interno di questo capitolo possiamo notare come il giardino di Villalilla, da luogo della casta rinascita e dalle connotazioni positive, assume l’aspetto di un luogo di morte agli occhi di Tullio. Le rondinelle sono partite e il loro clamore continuo è svanito; l’unica sonora consolazione rimasta sono le voci delle due “bambine inconsapevoli”[2]. L'atmosfera malinconica avvolge il giardino, ormai spoglio dei suoi fiori e profumi, mentre le rondini si preparano a migrare. L'ultimo stormo, radunato lungo le gronde, vola via, lasciando dietro di sé nidi vuoti e piume tremolanti.

Nel frattempo, Tullio ripercorre ricordi confusi e velati: Giuliana, in un momento di intimità passata, aveva dichiarato a lui amore nella stessa casa ora silenziosa, paragonata a una tomba che custodisce la felicità “primitiva”, ormai perduta. La figliuola Maria trova in un cassetto un guanto appartenuto a Giuliana. Questo ritrovamento rievoca nella mente di Tullio frammenti di un’idilliaca felicità, ormai lontana. La scena si chiude nuovamente con l’immagine dei nidi abbandonati.

Possiamo notare all’interno di questo capitolo numerosi espedienti narrativi e stilistici, che sono utilizzati da d’Annunzio per darci conto dello spaesamento emotivo e delle allucinazioni cognitive di Tullio. Nel testo sono presenti dei refrain, ripetizioni o ruminazioni[3]: si tratta di alcune frasi che, ripetute in maniera ossessiva, denotano un particolare stato di ansietà nel protagonista. La prima ripetizione che troviamo è quella della funerea e tetra visione del giardino di Villalilla e dei suoi nidi ormai abbandonati. Questa immagine diventa specchio dell’anima angosciata di Tullio.

Come possiamo vedere, la frase della riga 11:

«tutti i nidi erano abbandonati, vacui esanimi».[4]

ritorna poi alla conclusione del capitolo nella riga 68:

«Tutti i nidi erano abbandonati, vacui esanimi».[5]

Ancora, la frase della riga 3, legata alla dimensione del sogno:

«è un ricordo velato, infatti, indistinto, confuso, come d’un lungo sogno».[6]

ritorna, anche se leggermente variata, nella riga 31 e nella riga 59:

«Ho di tutto il resto un ricordo indistinto, come d’un sogno».[7]

Di nuovo, la frase della riga 21, che ha nuovamente come epicentro i nidi abbandonati:

«Nulla era più triste di quelle esili piume morte che qua e là, trattenute dalla creta, tremolavano».[8]

ritorna nella riga 70:

«Nulla era più triste di quelle esili piume morte che qua e là, trattenute dalla creta, tremolavano».[9]

Possiamo giungere a questa conclusione: l'iterazione viene usata da d’Annunzio per scandire gli stati d'animo, per rafforzare il senso di ossessione o angoscia nel protagonista.

Osserviamo un altro aspetto dello stesso capitolo: il momento in cui la figlia Maria trova un guanto della mamma Giuliana in fondo a un cassetto.

Il guanto sembra riportare alla mente di Tullio un lieto episodio della relazione con Giuliana, un tempo in cui erano felici, un tempo ormai remoto e irraggiungibile, che verrà semmai colmato dalla celata complicità dei due nella morte del figlio Raimondo, in un rapporto però ben diverso e lungi dall’essere felice. Nel momento in cui Maria dice a Tullio di voler riportare il guanto alla mamma, il protagonista le chiede di restituirglielo, così da poterlo portare lui stesso a Giuliana:

«Rendimelo, rendimelo. Voglio portarlo io alla mamma…»[10]

In questa frase è possibile scorgere uno dei vani tentativi che Tullio cerca di compiere simbolicamente per ricucire il vecchio, idilliaco, rapporto coniugale, che ormai sembra essersi dissolto. È dunque anche qui che, sottilmente, d’Annunzio ci conduce ad indagare le tensioni emotive del protagonista. Tullio, tra l’altro, nega alla propria figlia di portare il piccolo “trofeo” a casa dalla mamma per colmare le proprie ansietà, agendo in maniera insensibile. C'è una sorta di regressione di Tullio, che si comporta come un bambino, entrando in competizione con sua figlia Maria per ottenere le attenzioni della moglie Giuliana.

Il capitolo risulta poi adombrato da un’immagine di morte e di silenzio eterno, sempre ricollegata dallo stesso Tullio alla sua condizione di esistenziale tormento:

«Ma ora il silenzio era simile a quello delle tombe.

Là stava sepolta la mia felicità».[11]

Tornando all’episodio del guanto (riga 54), possiamo notare un’altra parola:

«Mi tornò chiaro alla memoria, in un lampo, l’episodio delle more […] ».[12]

Quel “lampo” ci riporta ad alcune riflessioni su Dostoevskij: nell’articolo L’arte letteraria del 28 dicembre 1892 sul «Mattino», d’Annunzio proclamava la necessità di una riforma del romanzo, di fatto anche con lo scopo di promuovere il suo uscente romanzo L’Innocente. Da poco esso era stato pubblicato a puntate sul «Corriere di Napoli» e sarebbe stato pubblicato integralmente presso l’editore Bideri. Leggendo le parole espresse da d’Annunzio sulle opere dei romanzieri russi, in particolare su Dostoevskij, egli scrive:

«Di queste correnti due erano le più profonde e le più sinuose […] la morale evangelica […] di Leone Tolstoi […] o, come quelli di Teodoro Dostojewski, parevano lugubri allucinazioni di un cervello infermo e talvolta rivelavano in una successione di lampi i più terribili segreti della vita interiore».[13]

Quella “successione di lampi” di cui ci parla d’Annunzio ben si può notare anche all’interno dell’Innocente. In vari passi del romanzo alla vita interiore vengono associate varie immagini, tra cui questa, come se il lampo svolgesse la funzione di rivelatore dei segreti più reconditi dell’interiorità:

«Un lampo mi attraversò il cervello. Un gran tremito interno mi assalì all'improvviso».[14]

Nel capitolo che stiamo prendendo in esame troviamo anche delle riprese da altri autori: quell’ “occhiata di sole languida”, che si trova nel capitolo alla riga 20 è un’originale ri-creazione del Carducci di Odi Barbare:

«Su gli alti fastigi s’indugia il sole guardando

Con un sorriso languido di viola».[15]

Carducci, con il suo classicismo vigoroso e il recupero della tradizione greco-latina, affascinò e influenzò fin da giovanissimo d'Annunzio, soprattutto nella prima fase della sua produzione poetica. A questa altezza temporale ormai d’Annunzio ha eliminato gran parte gli influssi carducciani, ma rimangono sempre vivide in lui alcune immagini poetiche come questa, reinterpretandola però in chiave decadente ed estetizzante.

Siamo giunti ad un’altezza del romanzo in cui Tullio è consapevole dell’“impurità” della moglie. Il piccolo Raimondo sta per nascere e gli istinti omicidi nella mente del protagonista stanno venendo a galla.

Villalilla non può più rappresentare un luogo silenzioso di resurrezione, di rinascita dell’anima in cui l’Io può provare a scacciar via le proprie ombre. Si fa strada dentro Tullio la consapevolezza che solamente tramite il delitto di Raimondo, l’innocente, egli possa liberarsi e accedere al mistero della “morte”[16], parola ripetuta spesse volte all’interno del romanzo (più di 60 occorrenze).

Sul significato simbolico e l’iterazione di lemmi

All’inizio del romanzo le rondini con il loro garrire già vengono caricate di un valore simbolico inquietante: nel silenzio di Villalilla “non si udiva se non il garrire delle rondini”[17].

Appare chiaro come il “garrire sia allo stesso tempo una presenza sgradita troppo rumorosa, sia specchio della coscienza tormentata di Tullio:

«Le rondini talvolta quasi ci rasentavano, con un grido, rapide e rilucenti come strali pennuti».[18]

Un altro elemento interessante è il sole, che si carica di valore simbolico e allegorico; questo compare più di venti volte all’interno del romanzo, e spesso è connesso ad uno scaturirsi di emozioni negative e claustrofobiche:

«Un senso vago di oppressione incominciò a venirmi da quel sole, da quei fiori, dai gridi di quelle rondini, da tutto quel riso, troppo aperto, della primavera trionfante».[19]

«Un occhiata di sole languida scendeva su la casa chiusa, su i nidi deserti».[20]

«E quel sole e quei fiori e quegli odori e quei romori e tutto quel riso della primavera troppo aperto mi diedero per la terza volta un senso di ansietà inesplicabile».[21]

Sull’effettivo peso dell’indagine interiore e quello dell’indagine sociale

È bene ora chiedersi anche quale sia il peso dell’analisi dannunziana della contorta psicologia omicida del protagonista, perché si rischierebbe di non comprendere del tutto altri aspetti del romanzo.

L’Innocente è indubbiamente un'opera che analizza la confessione di un infanticida e la sfera della follia.

Lo si deve analizzare, come abbiamo fatto in loco, anche sotto questo punto di vista, per coglierlo appieno.

Rimane molto importante anche comprendere come la vicenda del piccolo Raimondo e il suo assassinio siano narrati per motivazioni non date solo dall’interesse verso l’inconscio, descrivendo personaggi lacerati tra istinti primordiali e convenzioni sociali, ma anche per rappresentare una questione sociale dei tempi in cui d’Annunzio scrive, ossia la crisi dell’aristocrazia:[22]

«[…] pare, infatti, affondare le sue radici nel timore che un figlio illegittimo possa usurpare il nobile lignaggio della famiglia […] Il piccolo Raimondo, in una sorta di processo di transfert, appare lo spauracchio capace di dare forma concreta alle minacce sociali che rischiano di mettere a repentaglio la solidità aristocratica della famiglia Hermil, minandone dall’interno la struttura». [23]

Alla luce di questa osservazione della Maiorano, sembra possibile ipotizzare che sebbene sia innegabile l’interesse di d’Annunzio nei confronti dell’indagine psicologica, essa risulti anche un congegno utile a rappresentare, dall’interno, un momento storico:

«in cui l’aristocrazia si sente minacciata, nelle sue prerogative e nella sua stessa ragion d’essere, dall’incipiente società di massa».[24]

Conclusioni

Il capitolo XXIX dell’Innocente, nella sua brevità, riesce comunque a fornirci molte informazioni utili a comprendere le riflessioni di d’Annunzio a questa altezza cronologica. D’Annunzio passa dal riutilizzo di forme carducciane classicheggianti, poi rimaneggiate in forme decadenti, all’analisi dell’interiorità e alla multilateralità dei personaggi di Dostoevskij. L’iterazione, il refrain, viene utilizzato come espediente per rappresentare la complessità magmatica della mente tormentata di Tullio. Questa naturale tendenza verso uno psicologismo più complesso dell’autore può essere ricollegata anche a studi che precedono la scoperta dei romanzieri russi: abbiamo una testimonianza di questo nell’ articolo Domenica del Don Marzio del 24 gennaio 1892, nella quale d’Annunzio lodava il fisiologo Moleschott asserendo che, quando studiava a Roma, preferiva seguire le sue lezioni piuttosto che quelle dei professori della Facoltà di Lettere[25].

-Andrea Tili-


[1] M. Giammarco, Il giardino dannunziano ne’ L’Innocente, in “Jardins”, 8, 2004, pp. 261

[2] Gabriele d’Annunzio, L’Innocente, Editore BUR Rizzoli 2012, Capitolo VII, p. 288

[3] “In psicologia e psicanalisi, insieme di idee parassite (compulsioni e ossessioni) che un soggetto non riesce a rimuovere dalla sfera della coscienza”, da Vocabolario Treccani, https://www.treccani.it/vocabolario/ruminazione/

[4] L’Innocente, p. 288

[5] ivi, p. 290

[6] ivi, p. 288

[7] ivi, pp. 289-290

[8] ivi, pp. 288

[9] L’Innocente, p. 290

[10] Ibidem.

[11] L’Innocente, p. 289

[12] ivi, p. 290

[13] E. Paratore, D’Annunzio e il romanzo russo, in “Atti dei convegni lincei”, 19 maggio 1978, da JSTOR: http://www.jstor.org/stable/26257396. Accessed 12 Jan. 2025. ; p. 318.

[14] L’Innocente, p. 340

[15] Giosuè Carducci, Odi barbare, a cura di Luigi Banfi, Grande Universale Mursia, 2018, Nella piazza di San Petronio, vv. 1-2. Questo debito carducciano è evidenziato da Maria Rosa Giacon (L'Innocente, BUR 2012, p.288).

[16] M. Giammarco, Il giardino dannunziano ne’ L’Innocente, in “Jardins”, 8, 2004, p. 274

[17] L’Innocente, p. 157

[18] ivi, p. 158

[19] ivi, p.159

[20] ivi, p. 288

[21] ivi, p. 167

[22] M. F. Maiorano, Inquietudini coniugali e frustrazioni sociali ne L’Innocente di d’Annunzio, Convegno ADI (Associazione degli Italianisti) - "Scenari del conflitto nella letteratura italiana", Foggia, 2022, p. 5.

[23] ivi, p. 5.

[24] Ibidem.

[25] E. Paratore, D’Annunzio e il romanzo russo, p. 319.

Bibliografia essenziale

-Gabriele d’Annunzio, L’Innocente, Editore BUR Rizzoli 2012.

-M. Giammarco, Il giardino dannunziano ne’ L’Innocente, in “Jardins”, 8, 2004; pp. 259-274

-Giosuè Carducci, Odi barbare, a cura di Luigi Banfi, Grande Universale Mursia, 2018

-E. Paratore, D’Annunzio e il romanzo russo, in “Atti dei convegni lincei”, 19 maggio 1978.

-M. F. Maiorano, Inquietudini coniugali e frustrazioni sociali ne L’Innocente di d’Annunzio, Convegno ADI (Associazione degli Italianisti) - "Scenari del conflitto nella letteratura italiana", Foggia, 2022.

- J. Delvaux, “A CHI?” Confessione, gelosia e deliri nell’Innocente di Gabriele d’Annunzio, in Letteratura e Potere/Poteri, Atti del XXIV Congresso dell’ADI, Catania 23-25 settembre 2021, Adi editore, Roma 2023.

Ritratto di Gabriele D'Annunzio. Foto di Varischi e Artico, Milano. (Wikimedia Commons)

Eugène Carriere, Il bambino malato, 1885. (Wikimedia Commons)

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